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Non è che la faccenda mi tolga il sonno e, immagino, neppure a voi, però mi chiedo spesso: il pranzo della domenica che fine ha fatto? Quello della memoria, col profumo di ragù che bolliva sul fuoco, si insinuava come uno spiffero sotto alla porta della tua cameretta e faceva venire l’acquolina in bocca pure ai Duran Duran appiccicati alla parete. Dove sono finiti lasagne, cannelloni, le zite col sugo alla genovese, le fettine panate, il coniglio in casseruola, l’arrosto e il pollo al forno con le patate? Sono quasi spariti, fanno parte di un mondo di tradizioni in dissolvenza. In compenso, da nord a sud, nei nostri locali, è entrato a gamba tesa il brunch all’americana: bell’affare abbiamo fatto!

Non sopporto il nostro brunch e non capisco che senso abbia la diffusione di uno stile alieno che ci obbliga a conformarci. Questa simpatica consuetudine domenicale sostituisce, in molti ristoranti soprattutto a Roma e a Milano, la tradizione, i migliori piatti della nostra cucina regionale e le abitudini che ci hanno fatto diventare grandi. Forse sono ripetitiva nell’esercizio di scansare le mode, ma quella del brunch della domenica è una costumanza, radicata e ancora dilagante, con la quale non riesco a fare pace.

Il brunch italiano è preparato spesso in economia, con materie prime scadenti e avanzi del giorno prima. Fa scopa con l’apericena, altro ricettacolo di ritagli e frattaglie, ultimo passaggio prima del bidone dell’umido, ammesso che esista un minimo di rispetto per l’ecologia e le norme sulla differenziata.

Brunch significa breakfast & lunch quindi nella proposta prevede coerentemente, laddove trova origine, un misto fra dolce e salato. L’idea è molto semplice e ve la sintetizzo un po’ alla rozza, a modo mio: hai alzato il gomito la sera prima e ti sei svegliato mezzo suonato a un orario indecente. Devi riprenderti, mettere qualcosa sullo stomaco in modo tale da riposizionare il tasso alcolico e ristabilire le gerarchie tra fegato e cervello; ingerisci proteine e carboidrati per arrivare intero all’ora di cena.

Il brunch americano non è un buffet, non più dalla fine degli anni ’80 per quanto riguarda i grandi alberghi. Forse lo è ancora nel Nebraska ma chi ha voglia di arrivare fin là a verificare? Il Nebraska, poi, non è molto attraente.

Il vero brunch negli Usa prevede il servizio e propone variazioni di pancake con limone e ricotta, ad esempio. Cereali, uova (eggs Benedict, con bacon, spinaci) insalate e qualcosa di grigliato, tipo asparagi con uovo. Grits, una specie di polenta con molto burro, French toast e via dicendo, dipende dalle zone. Oltre al caffè americano si servono Bloody Mary (notoriamente una mano santa in caso di over drinking) e Champagne che piace ovunque un po’ a tutti e fa tanto chic. A San Francisco andare al brunch è quasi uno sport ma, ripeto, il concetto è ben diverso da quello nostro di importazione.

Il brunch addicted nostrano, che per semplificare chiameremo boy-brunch, più che unire il concetto di breakfast a quello di lunch, mette insieme il pranzo con la cena, come si suol dire e per fare questo deve mostrarsi abile e performante nel tenere in equilibrio, su un unico piatto, un multistrato di pasta al forno pietrificata, cozze fredde, cubetti di Emmenthal sudato, cous- cous fossile, insalata di riso preparata coi sottaceto, tanti bei würstelini e, prima che se le pappino quegli altri furbacchioni, una manciata abbondante di mozzarelline fritte nel Paraflu, quelle che hanno riempito le tasche dei produttori di Gaviscon. Il re degli avanzi dà il meglio di sé ogni domenica ma sul quotidiano se la cava benissimo anche all’apericena, dove si mangia come al brunch a dire il vero, solo che qui l’atmosfera è un’altra storia. Sul calar della sera la faccenda si fa più intrigante e, quando scatta il rimorchio dell’aperi-girl, talvolta, sono scintille. Sì ma la bolletta chi la paga? Guarda se non gli tocca accendere un aperimutuo.

Fonte: www.intravino.com